Red Hot Chili Peppers: cicatrici, sogni e amore senza fine

Scritto da il Dicembre 2, 2022

Sono passati quasi quarant’anni da quando, nel 1983, un pugno di ragazzi di Los Angeles decisero di mettere in piedi una band.

Sullo sfondo di una città che di angelico ha sempre avuto ben poco e conservato ancora meno, un marcato disagio esistenziale in diversi dei ragazzi in questione.

TRE SU MILLE CE LA FANNO

Anthony Kiedis durante un live

Anthony Kiedis durante un live

Fin qui tutto normale: decine, centinaia o forse migliaia di storie sono iniziate così. Molte per finire poco oltre.

Quattro di questi giovani non sono finiti lì.

Tre di loro, scapestrati e disadattati, hanno compiuto un’impresa difficilissima nella natura umana delle cose: restare fedeli a se stessi senza cambiare lo spartito, senza sintonizzarsi per forza sulle frequenze della radio che vuole un certo tipo di sistema.

Lo hanno dimostrato ancora una volta nel 2022: i RHCP sono usciti con due album a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro.

Oltre 30 canzoni in un anno solare. La musica è cambiata senza cambiare mai.

UN’ALCHIMIA NON REPLICABILE

Tattoo con il logo dei Red Hot Chili Peppers

Tattoo con il logo dei Red Hot Chili Peppers

Recenti studi scientifici dimostrano che è impossibile replicare in laboratorio l’amalgama che Anthony Kiedis, John Frusciante, Flea e Chad Smith hanno costruito in quattro decadi.

Certo, non è stato semplice, ci è voluto lo zampino del caso e di ripetuti tentativi. Come nella scienza.

La ricetta dei RHCP è semplice ed è rimasta intatta, come quella della Coca-Cola.

L’aspetto paradossale è che non c’è copione, come spesso accade nei loro concerti – chi vi scrive conferma, dopo averne visti un paio al Meazza di Milano nel 2004 e al Forum di Assago nel 1999.

La ricetta di Kiedis & CO. è l’improvvisazione, tanto sul palco o in studio, quanto nella vita quotidiana.

CONVERGENZA DEL DISAGIO

Escludendo il batterista Chad Smith, la cui unica stravaganza è l’involontaria somiglianza con l’attore Will Farrell, il resto della band ha alle spalle infanzie e adolescenze per lo meno complesse.

Kiedis è figlio di uno stuntman che lo portò con sé in California quando aveva 11 anni: fu lui a iniziarlo alle droghe leggere che trafficava per “arrotondare” e al sesso con l’appena maggiorenne Kimberly Smith, regalo per il suo dodicesimo compleanno e presunta fidanzata del genitore.

Andò un po’ meglio, ma non troppo a Michael Peter Balzary, vero nome di Flea (che in inglese significa pulce e si pronuncia fli), eccentrico e talentuoso bassista.

Il soprannome gli venne appiccicato addosso ai tempi della scuola per le sue ripetute discussioni con chiunque gli si trovasse a tiro.

Era il perfetto modello di ragazzo emarginato, ma impegnato e studioso, ben visto dagli insegnanti, non granché dai compagni.

Non un ragazzo popolare, insomma, che si appassionò ben presto alla musica, ma anche alle droghe. Tante.

Tantissime, troppe, quelle che hanno accompagnato la vita di John Frusciante, il cavallo di ritorno della band.

Il chitarrista di origini italiane abbandona e rientra al proprio posto con irregolare regolarità dal 1988.

Tre i capitoli: 88-92, 98-2009, 2019 sino a oggi.

Enrico Brizzi, scrittore di casa nostra, esordì con Jack Frusciante è uscito dal gruppo, anno domini 1994.

Questo per sottolineare l’impatto che il fragile musicista (vero artista) ha avuto e ha tutt’ora sia con i compagni di viaggio che nella mente collettiva.

UNLIMITED LOVE & RETURN OF THE DREAM CANTEEN

John Frusciante in posa per un servizio fotografico

John Frusciante in posa per un servizio fotografico

Non è un caso che gli album di quest’anno siano stati accolti con ovazioni e giubilo da addetti ai lavori e fan.

Il rientro di Frusciante ha ristabilito uno squilibrato equilibrio che funziona, lo dicevamo all’inizio.

I quattro si sono chiusi in studio semplicemente a suonare, quello che ne è venuto fuori e racchiuso nelle 34 canzoni dei due album.

Nessuno scarto, solo la voglia di suonare insieme, di catturare tutta la magia possibile e portarla in giro per il mondo. Operazione decisamente riuscita, a mio modesto parere, soprattutto con il secondo capitolo.

Return of the dream canteen, rispetto ad Unlimited love, ha qualcosa in più.

Sarà la dedica speciale a Eddie Van Halen nel quasi omonimo brano Eddie; oppure sarà il sound di Tippa my tongue, ouverture con il marchio di fabbrica funky stampato a fuoco su ogni nota.

O, ancora, il blues di Carry me home.

Non per ripeterci, ma era giusto dal 2009, da quando cioè Frusciante non partecipava a sessioni in studio, che non si sentiva l’anima completa dei RHCP in un loro disco.

Ora l’anima del gruppo non è più frammentata. Ed è pronta a regalarci altro amore illimitato.

Oppure è pronta per un documentario Netflix, chi lo sa.

Fino alla prossima fuga. Fino alla prossima fuga?


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