McDonald’s: oggi chiude l’ex Burghy, ritrovo dei Paninari

Scritto da il Dicembre 6, 2022

Gli anni Ottanta finiranno mai più, cantava Luciano Ligabue in Sopravvissuti e sopravviventi.

Benché possa sembrare così, con il copioso rimando quotidiano a icone che sono nate o hanno preso piede proprio negli Eighties, o che da lì traggono forza come l’universo di Stranger things, qualcosa vede la serranda abbassarsi per sempre.

È il caso del McDonald’s di piazza San Babila, a Milano, che oggi chiude i battenti definitivamente.

La notizia era nell’aria, anzi, era ufficiale già da diversi giorni ed è stata ripresa dalle più importanti testate giornalistiche del Paese.

Ma perché tanto clamore? Tre le ragioni principali: c’entrano i paninari, le loro coordinate e il primo Burghy. Nascita, domicilio e carte d’identità, per così dire.

 

In principio fu il Burghy

Il logo di Burghy

Il logo di Burghy

“E il settimo giorno Dio creò il cheesburger”. Un’altra citazione, questa volta cinematografica, che appartiene ad Aldo Baglio e al film Così è la vita.

Parafrasandola potremmo dire che il settimo giorno il concetto di fast food decise di crearsi un percorso anche tra le vie di Milano.

Quel giorno cadde nel 1981, anno in cui il Gruppo Supermercati GS aprì il primo locale di ristorazione all’americana qui, sul nostro territorio, con il nome di Burghy.

Vi furono proteste, anche vibranti, portate avanti da esponenti politici e intellettuali, ma alla fine il dado fu tratto.

Quel dado presto diventò una biglia su di un piano inclinato: un percorso inarrestabile che portò all’apertura di altri 96 ristoranti, facendo di Burghy una vera e solida catena.

Nel 1985 il Gruppo Cremonini (quello delle carni, non il cantante) rilevò la proprietà, che 10 anni dopo poté contare anche su 3 drive-in tra la città meneghina e la provincia, arrivando fino a Castelletto Ticino.

Nel 1996 irruppe nel Belpaese McDonald’s: Cremonini cedette tutti i locali al colosso statunitense, pur mantenendo il ruolo di unico fornitore della materia prima più importante, cioè la carne.

Il resto è storia che arriva fino a oggi, 6 dicembre, e alla chiusura del primo fast food italiano.

 

Cosa c’entrano (e quando entrano) i Paninari

Gruppo di paninari davanti al Burghy di San Babila

Gruppo di paninari davanti al Burghy di San Babila

Fino a qui abbiamo parlato della carta d’identità delle vetrine che si sono affacciate su quello spicchio di piazza San Babila.

Vetrine di Burghy dal 1981 al 1996, poi globalizzate sotto l’egida del clown Ronald McDonald.

Ma come mai quelle e non altre vetrine sono diventate così famose? Tutta ‘colpa’ dei paninari, prodotto sottoculturale urbano venuto al mondo all’inizio degli anni ’80.

Erano giovani disimpegnati politicamente, una reazione fisiologica alla militanza tipica del decennio precedente che giusto in piazza San Babila aveva visto lotte sanguinose tra studenti di destra e sinistra.

Loro, i paninari, nacquero a poche centinaia di metri da lì, precisamente a ridosso del bar Al Panino (da cui il nome) di via Agnello, a una manciata di passi da piazza Liberty dove oggi sorge l’Apple Store.

Erano tutti studenti, provenienti in prevalenza dalle scuole della Milano bene, che decisero di stabilire il ‘domicilio’ davanti al primo Burghy della storia.

Perché proprio lì? Non esiste una versione ufficiale, tuttavia si può ipotizzare che, a dispetto del disimpegno politico, questi adolescenti fossero più orientati verso le destre del tempo per i valori che incarnavano, che ne fossero o meno consapevoli.

Non a caso, forse, l’aria si faceva spesso tesa quando incrociavano sguardi e percorsi delle tribù punk e di sinistra.

 

Come identificare un paninaro

Per i paninari esistevano sia una divisa d’ordinanza, sia un preciso vocabolario. Come in ogni tribù che si rispetti, dopo tutto.

A pensarci bene è un fatto antropologico che con i brand, la musica, le radio e la moda ha sperimentato una sorta di distorsione percettiva tuttora esistente.

Ma torniamo ai paninari e al loro modo di vestire, innanzitutto.

Per i ragazzi erano imprescindibili il piumino Moncler, le cinture con fibbia El Charro, lo zaino Invicta e le Timberland ai piedi.

I nostalgici dell’epoca sono riconoscibilissimi anche al giorno d’oggi: se escludiamo gli zaini, il resto si può ancora incontrare in circolazione, solitamente addosso a uomini tra i 45 e i 55 anni.

Per le ragazze il must totale prevedeva capelli cotonati e borsette Naj-Oleari. Di acconciature di questo tipo, invece, per fortuna se ne incrociano un po’ di meno.

Per quel che riguarda il modo di parlare, sono stati sdoganati per anni alcuni vocaboli che, a dire il vero, non venivano poi così tanto dalla  strada.

Termini come squinzia e sfitinzia, oppure inglesismi maccheronici (arrapation), erano infatti invenzioni di autori televisivi o pubblicazioni paninare.

Si pensi al celebre personaggio di Enzo Braschi che spopolò al Drive In, ritenuto erroneamente l’ideologo del movimento, quasi fosse un Casaleggio del pop televisivo.

A conti fatti, insomma, quel che ci resta degli anni Ottanta sono sia brutti che bei ricordi. Come in tutte le fasi della vita di ognuno di noi.

 

 

 

 

 


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