30 Seconds to Mars: bellezza, connessione ed evoluzione

Scritto da il Giugno 7, 2023

Oggi torniamo in California, torniamo sotto il sole di Los Angeles, tra le palme e le ragazze in licra viola sui rollerblade di Venice Beach.

Ancora ho nel cuore il ricordo del recente incontro con Jack Black sulla strada dei demoni del rock.

Ma oggi il mio passo inciamperà in quello di un’icona del cinema, della moda e della musica, che ha cominciato il suo percorso con un genere assimilabile al nu metal blando, mescolato all’arena rock che deve riempire gli stadi a tavolino.

L’incontro in viola

I 30 seconds to Mars in una foto di repertorio

I 30 seconds to Mars in una foto di repertorio

L’icona si chiama Jared e non sarà solo: verrà accompagnato dal fratello Shannon, con il quale ha messo in piedi una band – in realtà un duo cui girano intorno ottimi turnisti live – che dalla fine degli anni Novanta ha mosso i suoi passi senza grosse aspettative, almeno all’inizio.

Mentre chiudo lo sportello della Camaro noleggiata per l’occasione e cammino verso una casa viola come la licra delle bionde in roller, una casa-cubo di vetro e cemento che fa molto film distopico, intravedo Jared e Shannon Leto che mi aspettano sulla porta.

Sembrano due modelli di Vogue, anzi, manca solo scritta sopra le loro teste.

Jared è in completo nero, occhiali scuri e capelli legati dietro la nuca; Shannon in jeans e smanicato.

Mi sorride, enigmatico, mentre Jared mi dice welcome e mi fa cenno di entrare e accomodarmi.

Se non avessi avuto un appuntamento e se non conoscessi le loro facce, avrei pensato mi volessero tendere un’imboscata.

Intorno a loro c’è un alone di mistero patinato, un linguaggio nascosto che emerge sia dalla simbologia creata ad hoc intorno al loro gruppo, i 30 Seconds to Mars, sia da quella disseminata nei video, nei cortometraggi di cui si occupa lo stesso Jared Leto da buon regista in erba e attore premio Oscar.

Gli inizi e l’incoraggiamento materno

Jared Leto in una foto recente

Jared Leto in una foto recente

La storia dei fratelli Leto e del loro gruppo comincia nel 1998.

Dopo un inizio quasi casalingo, come accennato senza troppe pretese ma con tanta dedizione artistica, la collaborazione con il produttore Bob Ezrin permette al primo disco omonimo ed eponimo di farsi strada e associare il nome di Jared Leto, voce e leader della band, non solo al mondo della tv e del cinema ma anche a quello della musica.

I due fratelli mi offrono da bere, ci siamo seduti sopra un divano (se avete pensato fosse color viola, avete fatto centro) che dà su di un’ampia vetrata punteggiata di sabbia portata dal vento: la vista sull’Oceano e il tramonto mi permettono di rompere il ghiaccio con facilità, complice anche il drink che ho tra le mani.

Jared non beve ed è vegano. Dice di voler restare lucido e creativo, che così gli riesce meglio.

Parliamo amabilmente del loro passato, dell’infanzia in Lousiana e del girovagare da una città all’altra dopo il divorzio dei genitori.

Con orgoglio mi confermano che la loro madre li ha sempre incoraggiati a perseguire una strada artistica: del resto sia lui che Shannon erano circondati da attori, musicisti, fotografi (l’altra attività svolta proprio da quest’ultimo, che è anche il batterista della band).

Risulta evidente in tutta la loro produzione il desiderio di evolvere, di non restare a tutti i costi aggrappati a un genere.

In un certo senso Jared Leto è un performer alla Bowie, molto creativo e con una voce ben riconoscibile, che non si può limitare alla sola sfera musicale.

Guardandomi fisso negli occhi, con quello sguardo che al contempo è ghiaccio e miele azzurro, mi dice che crede nel potere del movimento e della connessione con il pubblico.

Una connessione divenuta molto più forte dopo la release del loro pezzo forse più famoso, The kill, un omaggio a Kubrick e il manifesto della necessità di affrontare il proprio vero io.

L’orgoglio americano

Shannon Leto, fratello di Jared e batterista della band

Shannon Leto, fratello di Jared e batterista della band

Quando Walk on water è uscita, dico a Jared, sembrava volesse essere interpretata come la nuova venuta del Messia: un po’ per il titolo, un po’ per il fatto che lo stesso Jared aveva cambiato per l’ennesima volta look e che con barba e capelli lunghi, quel viso angelico, appariva come nell’iconografia classica di Gesù.

Eppure la primissima strofa è chiara: I walk on water but I ain’t no Jesus.

Shannon sorride e risponde quello che tante volte suo fratello ha risposto alla stampa di mezzo pianeta: «È un testo che racchiude il sogno americano, una canzone che parla della libertà e del sopravvivere, dentro ci sono ottimismo e speranza».

Storco un attimo il naso e Jared se ne accorge. «What?» mi fa, io tentenno prendendo un sorso dal drink, ascolto il rumore del mare in lontananza e la voce di Robert Plant che arriva dal giradischi della stanza accanto.

Gli dico che, insomma, la retorica del sogno americano ci ha un po’ stancati, se non altro perché la percezione che avete, rincaro, è sul serio quella di poter camminare sulle acque.

Jared esplode in una risata, si toglie per la prima volta gli occhiali e mi sussurra a denti un po’ stretti: «I’m closer to the edge», e non credo sia un buon segno.

La deriva anni Ottanta: colpa della musica italiana

C’è stato un filo di tensione. Io non sono stato molto carino e loro sono un po’ tanto patriottici. Tutto normale, un refill del drink e la lettura di due o tre messaggi hanno stemperato la situazione.

Jared e Shannon leggono con attenzione tutto ciò che li riguarda, ridono o sorridono a seconda del tono del testo che, tendenzialmente prende due strade: apprezzamento musicale o un filo più spinto.

D’altra parte sono due bei ragazzi… oddio, ragazzi… Jared spegnerà 52 candeline il prossimo 26 dicembre, Shannon ne ha da pochi mesi compiuti 53.
Comunque, tra i tanti messaggi arrivati uno merita menzione e discussione.

TheKill99, così si è firmato, chiede conto di quella che definisce la deriva un po’ Eighties dell’ultimo singolo, Stuck.

Io temo che la tensione possa salire di nuovo, invece Jared è rilassato e convinto della sua posizione: «È vero, suona molto anni ’80 come quasi tutto il disco nuovo», (It’s the end of the world but it’s a beautiful day, che uscirà a settembre, ndr) «sono stato molto influenzato soprattutto dal pop italiano che ho ascoltato durante le riprese di House of Gucci» (nel quale Jared ha interpretato Paolo Gucci, ndr).
«Abbiamo scritto circa 200 pezzi, eravamo molto ispirati soprattutto dalle atmosfere ’70 e ’80 che ci hanno toccato il cuore».

La critica come sempre si divide ed è anche un bene: troppi elogi non sono mai un buon segno.

Qualche critica certifica che hai centrato un bersaglio più importante, quello del dissenso: ed è questo che accende la dialettica e l’immaginazione.

Da Bowie a Dalì, passando di qui.

Il cinema, prima passione di Jared

Jared Leto nei panni di Mark Chapman, accanto a Lindsay Lohan

Jared Leto nei panni di Mark Chapman, accanto a Lindsay Lohan

Il tempo a disposizione con Shannon è finito, mi dice ha uno shooting fotografico a Pasadena: ci diamo appuntamento per un’altra volta, se mai avrò la fortuna di poterlo incontrare di nuovo.

Jared Leto però ha ancora qualche minuto da dedicarmi e allora, mentre ormai è calata la sera sopra i tetti bassi e le palme di Venice, parliamo un po’ della sua attività di attore.

Gli chiedo quanti film ha girato, ormai mi dice che non li ricorda più tutti, perché sono davvero tanti: dopo gli esordi in tv con un paio di serie di buon successo, la prima pellicola è datata 1995.

Da lì sono arrivate sempre più parti e sempre più critiche positive per la sua totale dedizione nel calarsi nei panni dei personaggi.

Cosa che ha avuto in un paio di circostanze dei risvolti significativi.

Mi racconta di quando ha vestito i panni di Steve Prefontaine, mezzofondista statunitense scomparso a nemmeno 25 anni dopo aver incantato alle Olimpiadi di Monaco ’72.

La sorella del corridore, colpita dalla somiglianza di Jared con il fratello, scoppiò a piangere quando vide il film per la prima volta.

In una pellicola più recente Jared ha vestito i panni di Mark Chapman, l’assassino di John Lennon.

Il film s’intitola Chapter 27 e rende bene l’ossessione che Chapman aveva per l’ex Beatle.

Questo anche grazie alla performance di Leto, che per l’occasione ingrassò 30 chili arrivando a soffrire di gotta e a dover ricorrere all’utilizzo della carrozzina.

«Un’esperienza che non farò mai più», chiosa mentre scuote la testa ricordando le difficoltà di quel periodo.

Poi sono arrivate anche mancate occasioni, come il provino cui non si presentò per la parte di Jack in Titanic, ma anche il grande e meritato riconoscimento della statuetta dorata che campeggia sopra una mensola davanti ai nostri occhi per il ruolo di Rayon in Dallas Buyers Club.

A parte Joker in Suicide Squad o Fight Club, o ancora Mr Nobody, gli dico che mi ha incantato nelle vesti (molto succinte) di Efestione in Alexander.

Mi lancia lì un thanks che avrebbe sciolto come neve chiunque.

Jared Leto è davvero bello come sembra, ve lo assicuro.

 


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