VENDITA CATALOGHI MUSICALI: BOLLA EDITORIALE O BUSINESS DEL FUTURO?

Scritto da il Gennaio 4, 2022

Un po’ come inizia ad accadere per gli investimenti multimilionari di cripto valute nel metaverso, c’è chi scommette sulla bolla pronta ad esplodere anche per quanto riguarda la recente corsa all’oro relativa all’acquisizione dei cataloghi musicali, da parte soprattutto di società d’investimento.

 

GRANDI NOMI, GRANDI AFFARI

Springsteen vinyl Photo by Jose Antonio Gallego Vázquez

Springsteen vinyl Photo by Jose Antonio Gallego Vázquez

Sono tanti gli analisti che stanno alla finestra ad osservare la situazione e a fare ipotesi, a puntare su questo o quello scenario: affare del millennio o ennesimo palazzo pronto a crollare? Come sempre sarà il tempo a decretare la realtà imperante, intanto i nomi più importanti della musica internazionale cercano di fuggire dalla porta sul retro prima che il palazzo cominci a tremare più di quanto già stia facendo.

Tutto è partito a dicembre 2020 quando Bob Dylan ha ceduto i diritti patrimoniali su 600 dei suoi brani alla divisione editoriale Universal per una cifra che oscilla trai 300 e i 400 milioni di dollari. Il più recente accordo tra Bruce Springsteen e Sony, raggiunto per un ammontare complessivo di circa 500 milioni di dollari, fa capire che le contrattazioni sono al rialzo.

Così molti altri protagonisti delle scene musicali anni ’70 e ’80 si sono messi in scia. Stevie Nicks dei Fleetwood Mac, i Beach Boys (che hanno ceduto anche lo sfruttamento perpetuo del marchio) e il settantanovenne David Crosby. Quest’ultimo ha ammesso molto candidamente di dover pensare alla famiglia e al mutuo. Tra i nomi più importanti c’è anche quello di Neil Young, di cui ancora qui a Milano si parla per l’esibizione del 2008 al Teatro degli Arcimboldi. Anche in casa nostra le cose vanno nella stessa direzione: di recente il rapper Fedez ha venduto il suo catalogo a Edizioni Curci, così come Claudio Baglioni, Antonello Venditti e Francesco Renga.

 

COME FUNZIONA IL DIRITTO D’AUTORE

Mixer - Photo by denisseleon

Mixer – Photo by denisseleon

 

Fermo restando che i diritti morali sulle opere (paternità, integrità e pubblicazione) restano inalienabili, è su quelli patrimoniali che i musicisti si sono lanciati.

Facciamo chiarezza: esiste una proprietà intellettuale delle opere, che in ambito musicale solitamente appartiene a chi compone e a chi registra, cioè autore e case discografiche. Le royalties che ne derivano ovvero i diritti patrimoniali — non vengono spartite al 50%, l’artista è quello che guadagna meno ricevendo un compenso tra il 12% e il 22% del volume d’affari generato.

Quando un musicista vende dunque il proprio catalogo, intero oppure in parti, vende quella percentuale sui diritti complessivi.

 

I PERCHÈ DELLA CORSA ALL’ORO

Producer Photo by Tanner Boriack

Producer Photo by Tanner Boriack

Da tempo il palazzo dell’industria discografica scricchiola, potremmo dire dal giorno in cui Napster ha visto la luce. Ma è con il perfezionamento dello streaming che le fondamenta dell’intero sistema si sono scoperte davvero in pericolo. La musica liquida ha soppiantato quasi del tutto i supporti fisici, sebbene il vinile abbia avuto un moto d’orgoglio negli ultimi cinque anni.

In parallelo è andato definendosi il fenomeno conosciuto come effetto Spotify: per gli investitori è facile individuare brani e artisti in cima alle classifiche, è un processo rapido e a basso costo. E da quando questo effetto ha avuto un’improvvisa accelerata? Dall’inizio della pandemia, che a sua volta ha generato un altro effetto sugli introiti degli artisti: la voce zero alla casella live show.

Semplificando: lo streaming imperante già obbligava i musicisti a puntare tutto sui concerti, dal momento che il flusso di introiti generato da Spotify e affini è davvero basso in confronto alla vendita degli album fisici; l’esplosione della pandemia e le conseguenti limitazioni hanno fatto scattare per molti l’allarme rosso del conto in banca. I fondi d’investimento lo hanno capito, gli artisti anche.

QUALE LO SCENARIO PER IL FUTURO?

In sintesi estrema si può dire che molti musicisti hanno preferito l’uovo oggi piuttosto che la gallina domani. Resta da vedere se in futuro qualcuno di loro si pentirà o meno di aver venduto il proprio repertorio. Citando il noto dirigente dell’industria musicale americana Martin Bandier: “Quando le persone sono sia felici che tristi, le uniche attività che fioriscono sono quelle della musica e dell’alcol”.

La musica è perciò, secondo questa tesi, a prova di crisi. Inclusa una pandemia. I fondi d’investimento e gli editori più ricchi (che comprendono le radio) nel dubbio si sono portati avanti investendo per garantire al proprio business un futuro. Se sarà popolato da catene di fast food dai nomi strani come Beach Boys Burger, oppure zeppo di riedizioni remixate di Born to run del Boss, lo scopriremo.




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