Film, rock, prog e soul: quando musica e cinema fanno centro

Scritto da il Febbraio 16, 2023

La musica è da sempre un motore emotivo straordinario.

Si sono scritti libri e saggi eccezionali sull’argomento, pagine che tentano di spiegare quale sia il filo diretto che lega le nostre sensazioni – anche fisiche – a strutture armoniche e melodie espresse attraverso questo o quel brano.

Esiste, forse, una sorta di universalità che ci permette di godere nella stessa maniera e in simultanea con altri esseri umani, di una serie di note che per il nostro cervello hanno un senso preciso?

Probabilmente sì. Ed è già straordinario così.

Ma che cosa accade quando la musica, che arrivi da un live o un disco oppure una radio, incontra l’arte visiva del cinema, della tv?

Questo è ciò che tenteremo di far emergere indirettamente con questo articolo, proponendoci di illustrare semplicemente alcune tra le più celebri pellicole che parlano di musica, attraverso i brani che più le hanno caratterizzate.

Un viaggio che in potenza potrebbe essere infinito, vista la mole di brani, riferimenti, rimandi e citazioni.

La curiosa storia de Il mago di Oz e i Pink Floyd

Una scena tratta da Il mago di Oz (1939)

Una scena tratta da Il mago di Oz (1939)

Se vi pungesse vaghezza di riguardare Il mago di Oz diretto da Victor Fleming nel 1939, ma vi dimenticaste di togliere dal piatto del giradischi The dark side of the moon, niente paura.

Anzi, prestate attenzione: potreste cogliere dettagli tutt’altro che nascosti.

Per esempio il fatto che, curiosamente, molte scene della pellicola sembrano perfettamente sincronizzate con l’incedere del disco dei Pink Floyd.

In alcuni momenti pare addirittura didascalico, fatto di proposito.

Provare per credere: nella scena in cui la strega arriva in bicicletta, partono i rintocchi e le sveglie dell’intro di Time, ricordando molto da vicino suono e frastuono di una moltitudine di campanelli.

Oppure quando Dorothy rientra a casa e la voce di David Gilmour canta: “Home, home again, I like to be here when I can”.

Un’altra scena che non lascia indifferenti è quella in cui sempre Dorothy inizia a correre, mentre Roger Waters sottolinea: “No one told you when to run”.

Inoltre, i cambi di scena molto spesso corrispondono al passaggio tra una canzone e l’altra.

Una breve ricerca in rete vi fornirà le istruzioni per tentare l’esperimento.

Chissà che non ci abbiano provato anche gli stessi membri della band inglese, che nel tempo hanno smentito ogni possibile ‘piano segreto’ dietro la composizione del disco, ma che si sono divertiti quando glielo hanno fatto notare per la prima volta.

Malek-Mercury e un progetto riuscito a metà

Rami Malek nei panni di Freddie Mercury

Rami Malek nei panni di Freddie Mercury

Restiamo in zona anni Settanta, sconfinando sino ai giorni nostri per il tempo di un’altra pellicola.

Passiamo dai Queen e dal discusso Bohemian Rhapsody, il lungometraggio che racconta – o dovrebbe raccontare – il più fedelmente possibile la storia della band di Freddie Mercury, Brian May, John Deacon e Roger Taylor.

Scritto con la supervisione dello stesso batterista e di May, il film tende a romanzare forse eccessivamente alcune parti, omettendone altre.

Per necessità drammaturgica ci può stare, certo.

La scoperta della malattia di Mercury e il successivo momento catartico con la band, per esempio, non andarono esattamente nel modo raccontato all’interno del film, incluse le dinamiche temporali.

Ma in fondo a chi importa davvero, dopotutto? Quello che conta non è rendere immortale, una volta di più, qualcuno e la sua opera, per fregare la natura non permanente degli esseri umani?

E poi non è altrettanto vero che alcune forme d’arte, se non tutte, sono una sublimazione del reale, un altro punto di vista, una costante metafora, sintesi e invenzione di ciò che abbiamo intorno?

Su questo possiamo ‘perdonare’ e passare oltre.

Quel che però ha fatto storcere un po’ il naso, è stato il consueto balletto di estasi eccessiva per l’interpretazione di Rami Malek nei panni di Freddie.

Bravo, nulla da dire; forse un filo troppo caratterista, con quello sguardo perennemente allucinato.

Resta tuttavia straordinario l’impatto di alcune sequenze nelle quali Mercury trova l’ispirazione: in un caso per la composizione di Love of my life, nell’altro quando si sintonizza con sguardo e tempo di Brian May nella creazione del beat di We will rock you.

Aretha e la missione per conto di Dio

Un frame del biopic dedicato ad Aretha Franklin

Un frame del biopic dedicato ad Aretha Franklin

Non potevamo esimerci dal citare anche i Blues Brothers. Non è rock la canzone cantata da Aretha Franklin, quella versione di Think divenuta una sorta di stella polare, ma tutto il resto sì.

Oltre a trasudare – e sudare blues –, c’è il puzzo di punk della breve esistenza terrena di John Belushi, c’è il tanfo della decadenza del costume americano, c’è la fatica della vita delle band che suonano nelle province polverose, gonfie d’alcol e cariche di rabbia repressa.

C’è il farsi più o meno scivolare tutto addosso, in pieno stile rock. C’è anche il profumo della vita nel sorriso di Ray Charles, nello sguardo orgoglioso di Aretha, regina di soul e gospel cui è stato dedicato un immenso biopic: Respect, con una altrettanto immensa e ispirata Jennifer Hudson nei panni della Franklin.

E poi ci sono musiche, puri intrecci inspiegabili che catturano e portano altrove.

C’è tutto il creato di Hans Zimmer, cui l’universo del possibile si è inchinato attraverso Time di Inception e la meraviglia di S.T.A.Y. in Interstellar.

C’è On the nature of daylight, il brano di Max Richter: uno strumentale d’archi, viole e violoncelli in particolare, che sottolinea in maniere differenti gli stati d’animo di una ventina di pellicole.

Ma due di queste sbriciolano il cuore in più parti e con declinazioni diametralmente opposte: Shutter Island prima e Arrival poi.

Alpha e Omega versatili, a dimostrazione che la musica è il centro di tanto, se non tutto.

 

 

 

 

 

 


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